RELATION:SHIPS
Vivir el Litoral
2003
Panama City
Realizzato per l’evento ciudadMULTIPLEcity. Arte > Panamá 2003
Promotore
Fundacion Arpa Panama
Curatori
Gerardo Mosquera e Adrienne Samos
Durata
18 mesi
Con
Alvaro Uribe, urbanista, docente Universidad de Architettura Panamà | Gilbert Guardia e Ramo Zafrani - FEMUR Studio Architettura | Gustavo Araujo, artista e fotografo | Harold Maduro, webmaster | Jonathan Harker, artista e videomaker | Pitu Jaén, facilitatrice di progetto e webmaster | Rich Potter, videomaker | Roberto Quintero, giornalista de La Prensa
Partecipanti
Abitanti della Baia di Panama | Amministratori e operatori del Canale di Panama
Finanziamento
Pubblico | Privato
Rituale di riconciliazione con il Mare
29 marzo 2003, 7.30-11.00 p.m.
Parco e Molo di Punta Paitilla
Con
Nelly González, Santera
e in collaborazione con
Humberto Veléz, artista
Live Sound Mixing
Ingmar Herrera
Rodrigo [Lilo] Sanchez , musicista
Video proiezioni
Harold Maduro
Testi
Pilar Moreno e Miriam Butterman - Casa Jubilada Productions
Voci
Carlos Sánchez e Rodrigo Colón Sánchez
Partnership
Grupo Panalang Unión
Manolo Caracol e El Arca Ristoranti
Approfondimenti
R:S Vivir el Litoral-progetto
ciudadMULTIPLEcity–sito web
ciudadMULTIPLEcity-video
R:S Relazione Terra-Mare
Azioni correlate
Relation:Ships Mapping Territories
Welcome to Venice
100 giorni di MS3
Uomo in Mare! Terra in Vista!
Porto una Nuova Città
Dopo anni d’indifferenza, come portare attenzione e intenzione di cura all’ecosistema del litorale pacifico panamense?
Prima dell’invito a partecipare a ciudadMULTIPLEcity, avevo già in programma di andare Panama: una nave cargo da Lubecca mi avrebbe portato lì in un mese di navigazione. Dopo anni di studio e lavoro sulla realtà dei lavoratori marittimi attraverso i progetti MS3 e Welcome to Venice e sui diritti e le effettive condizioni di accoglienza nei porti con il progetto RELATION:SHIPS Mapping Territories ancora in corso in quell’anno (2003), volevo fare quell’esperienza in prima persona: vivere in una casa di ferro sopra l’oceano e attraversare il Canale di Panama.
Panama e il suo canale era il luogo dove continuare l’esplorazione sul sistema delle bandiere ombra. Ma il viaggio in nave cargo prevedeva lo scalo in un porto statunitense e una nuova legge antiterrorismo -introdotta dopo gli attentati alle Torri Gemelle- mi impedì di viaggiare come ospite.
A Panama nel 2003 ci arrivai comunque, in aereo, invitata dei curatori Adrienne Samos e Gerardo Mosquera per partecipare a ciudadMULTIPLEcity, un’esibizione internazionale di Public Art, organizzata per il centocinquantesimo anniversario della Repubblica di Panamá.
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Partecipando su invito a progetti curatoriali site-specific, di Public o Social Art, mi sono spesso scontrata con la difficoltà di re-definire la relazione tra artista e curatore. Molte volte mi è stato chiesto di “predire” la forma dell’intervento ancor prima di iniziare il lavoro sul campo, cosa non realmente fattibile, visto il mio approccio processuale e inclusivo: agisco nel contesto pubblico innescando un processo co-creativo e la forma d’azione nel contesto site-specific emerge durante il suo svolgersi. Altre volte mi è stato chiesto di comunicare anticipatamente e con precisione i tempi, i materiali, le strumentazioni, gli spazi… rivelando un retaggio di curatela museale (spazi deputati alle esposizioni), poco utile a quegli artisti che invece agiscono nello spazio (e nel tempo) pubblico, nelle relazioni sociali.
Gerardo Mosquera e Adrienne Samos hanno invece meso in atto un modello curatoriale coerente ed ispirante per la gestione di questo tipo d’interventi artistici. Fin da subito si sono posti come mentori, dialogando con gli artisti sul senso e il valore che l’intero progetto aveva per la città e per l’area del centroamerica, mai indicando o richiedendo forme e prassi ai singoli artisti.
Adrienne e Gerardo sono stati ambasciatori del progetto e mediatori tra gli artisti invitati e la città: capaci di dialogare con la governance della città e di mettere in contatto gli artisti con la realtà panamense, attraverso diversi stakeholders. Hanno creato una straordinaria rete di supporto, fatta di giovani creativi volontari, scelti e formati per promuovere la visione generale del progetto e agevolare gli artisti nella realizzazione delle loro azioni puntuali: un’esperienza formativa, una opportunità per la loro crescita professionale.
Questo modello ha decentrato la figura del curatore e ha così permesso l’emersione della responsabilità dell’agire di tutti noi, ogni uno per il suo ruolo. Eravamo tutti responsabilmente coinvolti!
Arrivata a Panama avevo l’intenzione di continuare ad esplorare il mondo dei trasporti marittimi: conoscere il sistema del Canale di Panama e della controversa flotta mercantile più grande al mondo, utilizzata dagli armatori come bandiera ombra: temi di valenza internazionale che ero certa influenzassero non poco l’identità di quell’area, ma di tutto ciò non trovavo riscontro nei dialoghi con i panamensi. Percepivo un distacco emotivo, un blocco.
In quel lembo di terra inizialmente colombiano -che Theodore Roosevelt con forza si prese per aprire un canale che collegasse l'Atlantico al Pacifico (creando i presupposti per la costituzione della Repubblica di Panama nel 1903)- il canale, la flotta e le bandiere ombra erano argomenti da non toccare, almeno direttamente.
Abbandonai l’idea iniziale e chiesi agli stessi panamensi di accompagnarmi nell’esplorazione della città, alla ricerca di un aspetto identitario.
La curatela mi aveva affiancato due giovani architetti dello studio FEMUR: Ramón Zafrani e Gilberto Guardia Novey, ai quali chiesi di invitare altri professionisti panamensi (urbanisti, musicisti, scrittori, psicologi, avvocati, insegnanti, ristoratori, etc.) a partecipare all’osservazione percettiva “Prestami i Tuoi Occhi” per esplorare la città.
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Su una grande mappa appesa nello studio FEMUR, ognuno degli invitati ha segnato un personale itinerario tematico che attraversava differenti paesaggi urbani e sociali, mentre raccontava la sua esperienza e la sua idea di città.
Nei giorni successivi abbiamo percorso insieme tutti gli itinerari, spostandoci a piedi, in macchina o con i mezzi pubblici e incontrato altri panamensi, che a loro volta segnalavano itinerari d’osservazione e raccontavano personali visioni sulla città. Nei vari racconti si sentiva spesso la parola “mar”, che identificavano con il Caribe, il mare che bagna le coste atlantiche del Paese, l’altro oceano alle spalle della città di Panamá.
Al gruppo d’osservazione si unisce Alvaro Uribe, urbanista e docente all’Universidad de Architettura Panamá, con i suoi studenti. Con loro abbiamo esplorato la città di Panama osservandola dal mare, identificando dal punto di vista storico quegli archetipi che hanno attivato la percepibile relazione disarmonica con il mare di fronte.
Da queste esplorazioni ed incontri è emerso con forza un tema, tanto urbanistico quanto identitario: la città di Panamá guarda alla sua espansione estendendosi lungo la costa pacifica e protendendo verso il mare, incurante dell’impatto sull’ecosistema della baia e sulle comunità di pescatori insediate, insensibile al degrado del suo cuore antico Panamá Viejo: nessuna visione di rigenerazione.
Una città capitale che guarda il Pacifico, con un modello urbanistico brutta copia dalle grandi città statunitensi, dove tutto volge a dare servizi e infrastrutture agli affari internazionali, bancari e commerciali, mentre la popolazione autoctona guarda a Colon e al mare Caraibico come culla della sua identità.
Per otto mesi abbiamo raccolto storie, suoni e immagini, intervistato persone di differenti ambiti culturali e sociali: ognuno di questi incontri è stato un momento di attenzione alla baia, un atto di riflessione, d’amore e di energia diretta verso el litoral.
Infine, nella mia mente riecheggiava il monito dei pescatori affisso all’entrata del mercato del pesce: “NO LE DES LA ESPALDA AL MAR”. Raccogliemmo questa voce, eco di molte ascoltate, per farla diventare il messaggio principale dell’azione pubblica, ma per far convergere ancora più sguardi sulla baia serviva un’azione shock: un atto coraggioso, che andasse oltre l’agire razionale, che avesse la forza di un rituale sciamanico.
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Tra i diversi stakeholders panamensi, chiesi ai curatori Gerardo e Adrianne di organizzarmi un incontro con una Santera. Non era una richiesta bizzarra, la santeria è parte essenziale della cultura centroamericana e, anche se disprezzata dalla civiltà occidentale coloniale, continua sommersa il suo esercizio.
Non era comunque semplice trovare qualcuno disposto ad uscire dall’ombra, ma Monica Portillo, assistente curatoriale, infine una persona l’ha trovata. Incredula mi ha riferito che quando le chiese se era disposta ad incontrarmi, lei rispose che “mi stava aspettando”: un sogno le aveva annunciato il mio arrivo. Domandai a Monica se avesse avuto modo di raccontarle il motivo per cui volevo incontrarla, e Monica mi disse di no: quella risposta l’aveva inquietata.
Nelli è una Santera cubana, con modi accoglienti e scuri occhi penetranti. Entrai nel suo negozio colmo di erbe, pietre, oggetti sacri che conoscevo e altri sconosciuti. Mi accolse con un sorriso, dicendomi “Ti stavo aspettando, sali”. Ci sedemmo in una stanza, davanti a me un quadro dell’ultima cena, con Gesù nero e gli apostoli rasta. Parlò lei: “Ti ho visto, sei qui per aiutare a riconciliare Yemayà con questa città” e mi raccontò ciò che aveva già visto: tutto quello che avevo fatto per il popolo del mare negli scorsi anni; che il progetto a Panama aveva preso un’altra piega rispetto all’intenzione originaria e della vera ragione per cui ero lì: la riconciliazione della città con il mare.
Mi disse che lei non praticava rituali pubblici: la santeria non era ben vista a Panana, ma “Yemayà ci aspetta, quindi lo farò” - aggiunse. Le raccontai degli incontri, delle voci ascoltate, della raccolta di suoni e immagini della baia; della narrazione collettiva che volevamo mettere in scena in una performance pubblica, attorno ad un grande convivio. Sentii un forte legame con Nelli, come se ci conoscessimo da sempre. Il dialogo era fluido, quasi un riassunto di qualcosa che già avevamo lungamente discusso. “Quello sarà il luogo e il momento del rituale” - affermò. Non le chiesi che cosa avrebbe fatto di preciso, semplicemente mi disse di cosa aveva bisogno: frutta, tabacco, l’alcool che Yemayà avrebbe gradito. Sentii che quel gesto le sarebbe costato molto, si sarebbe esposta in pubblico. Dovevo averne cura.
Scegliemmo come luogo dell’evento Punta Paitilla, il più antico approdo di pescatori in città, oggi abbandonato e accerchiato dai nuovi grattacieli residenziali.
Vivir el Litoral / Evento pubblico
Il cancello del parco di Punta Paitilla segnava l’entrata all’evento pubblico: centinaia di persone aspettavano la sua apertura. Le presenze aumentavano, erano ormai molte di più del previsto. In uno Stato in cui, per storiche ragioni di sicurezza, non era permessa l’aggregazione di più di dieci persone in un luogo pubblico, consentire a centinaia di persone di partecipare ad un evento è stato il primo ostacolo da superare, ma ormai l’energia di quell’intenzione collettiva fluiva e il permesso arrivò.
L’allestimento di quella performance partecipata già portava in sé qualcosa di irrazionale, sorprendente, magico. L’apertura al pubblico era prevista per le 7:30 della sera e alle 4:00 del pomeriggio nulla era ancora fatto: nessuno dei dieci assistenti assegnati dalla curatela era arrivato, nessun artista che avrebbe realizzato la performance collettiva. Dall’attiguo Yachting Club arrivavano le note assordanti delle prove di un concerto imprevisto: quella musica avrebbe sovrastato i racconti, i suoni, le poesie…la narrazione collettiva della baia. Impotente, mi sedetti all’ombra di un albero e aspettai ancora, con speranza: dieci mesi di lavoro a Panama mi avevano insegnato che alla programmazione - tipica della mia cultura del fare – in quella terra si affiancava la fiducia negli eventi e la forza dell’intenzione, custodite nel cuore dei latinoamericani. Alle cinque della sera arrivarono assistenti e artisti, portando altri amici in aiuto e per l’ora dell’apertura al pubblico tutto era pronto.
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La gente arrivava seguendo la Banda del Hogar condotta dall’artista Humberto Veléz attraverso la città, fino al parco di Punta Paitilla... e ancora altra gente continuava ad arrivare.
Le persone entravano ad una ad una dallo stretto cancello del parco, dove le accoglievo sussurrando all’orecchio di ognuna: “No Le Des La Espalda Al Mar”. Il monito dei pescatori fu incredibilmente preso alla lettera: per tutta la sera moltissime persone si muovevano come gamberi, facendo attenzione a non dar le spalle al mare, avvolti da suoni, canti, racconti, poesie e immagini proiettate sui grattacieli attorno: il racconto co-autoriale sulla vita del litorale.
Nelli, la Santera, arrivò quasi invisibile, mangiò tra tutti noi seduti lungo i diciotto metri di tovaglia color del mare, imbandita di frutta, verdura e pesce (il cibo gradito a Yemayà), allestita sulla rampa del molo, che un tempo vedeva scivolare in acqua le barche dei pescatori. Nessun annuncio per l’inizio del suo rituale.
Ad un tratto Nelli mi prende la mano e mi dice di seguirla in acqua. È il momento: inizia il rituale. La gente ancora mangia e conversa, avvolta dai suoni e dalle immagini raccolte nei mesi di osservazione partecipata.
Titubante mi guardai attorno. Bassa marea: il mare ritirato e le barche poggiate sul fondale melmoso. Incurante lei proseguì verso il mare, ed io al suo fianco nella fanghiglia. In mano portavamo l’ofrienda per Yemayà: foglie di tabacco, alcool, frutta… preziosi prodotti della terra, come simbolo di nuova relazione. Sussurrando parole cantate iniziammo il rituale.
Nella nostra cultura, quello che è accaduto si potrebbe chiamare miracolo, io lo chiamo armonia tra elementi. Razionalmente inspiegabile: so che la marea sei ore cala e sei ore cresce, che negli oceani flusso e riflusso raggiungono anche di 10-20 metri nell’arco di un giorno, ma quella sera l’acqua dal nulla arrivò alle mie ginocchia in circa 5 minuti.
Mi girai verso il porticciolo di Punta Paitilla: tutti alzati, immobili, in silenzio, attoniti come me nel vedere ciò che stava accadendo. Nelli finì il rituale, immerse le mani nell’acqua e raccolse un piccolo paguro che mi porse: “Un pequeño regalo del mar”. Se ne andò in silenzio, quasi invisibile, come era arrivata.
Ci sono momenti in cui nonostante gli strumenti di pianificazione, strategia, creatività e la conoscenza sui processi co-generativi, per innescare un cambiamento serve qualcosa di magico: una forza capace di sbloccare l’energia e la consapevolezza di un sistema. Da Yeoshua a Jodorowsky, passando per l’inconscio collettivo di Jung, la storia ci insegna come un rituale collettivo può guarire e innescare nuova consapevolezza.
Oggi el litoral di Panama city è un parco lineare con aree residenziali, servizi e spazi ricreativi: ridisegnato dal punto di vista urbanistico e risanato da quello ecologico. Rimangono ancora i piccoli villaggi di pescatori ingabbiati tra gli alti grattacieli dei quartieri lussuosi affacciati sull’oceano, insegna di uno sviluppo che guarda oltreoceano. Alla fonda, le grandi navi cargo che aspettano di passare il canale di Panama hanno ormai hanno superato il numero delle barche da pesca ormeggiate a riva.